Recensione
I Blackwood, un tempo sono stati una grande famiglia felice, dopo una terribile tragedia a sopravvivere sono rimasti in tre: Constance, Katherine, detta Merricat, e zio Julian. I ricordi di quel funesto giorno, dopo tanti anni, continuano ad essere ancora vivi attraverso i deliri dello zio, la cui intenzione è quella di scrivere un libro riguardo la disgrazia avvenuta durante una cena di sei anni fa.
A raccontare al lettore la storia è Katherine, una ragazza bizzarra con un’esagerata inclinazione fantasiosa. Lei è l’unico collegamento con gli abitanti del villaggio, andando due volte a settimana per fare provviste, e subendo l’ostilità immotivata di quella gente. Trascorre quelle poche ore tra i paesani, che la osservano attraverso le finestre e che la esortano a fare “fagotto” per lasciare la villa, non è affatto facile.
“Gli abitanti del paese ci hanno sempre odiati.”
Ma Katherine ha il potere di scrollarseli di dosso, richiudendosi in se stessa e rifugiandosi in un luogo profondo e segreto, proteggendo se stessa e la sua adorata sorella.
Marricat, infatti, immagina di proteggere la loro casa mettendo delle barriere intorno: un libricino inchiodato ad un albero, una bambola seppellita coperta da una pietra e altre stramberie. Inoltre attraverso maledizioni silenziose cerca di lasciare fuori dalla loro solitudine chiunque volesse intromettersi, perché nonostante tutto la loro casa trabocca d’amore e l’intrusione di un estraneo avrebbe smantellato i loro equilibri e avrebbe portato rabbia.
Katherine è una grande chiacchierona e proprio per questo credo che non dovremmo prenderla seriamente, ma è talmente abile da riuscire ad ingannare il lettore plasmando a suo piacimento la realtà.
Nel corso della lettura, attraverso la tracotanza dei dialoghi si delinea la caratteristica caratteriale di ogni personaggio, percependo i demoni interni che li affliggono mascherati da tanta normalità, caratteristica dominante nei libri dell’autrice.
Una storia costruita alla perfezione che comincia con pochi ingredienti: mirtilli, zucchero, veleno, due sorelle e una comunità ostile. Il tutto condito dalla solitudine e dall’esclusione sociale.
Attraverso una cura maniacale dei dettagli la narrazione trasporta il lettore sul luogo, tanto da averne voglia di restarci. Riusciamo a calpestare ogni meandro del bosco che circonda la casa, a vedere i vapori del primo mattino che aleggiano lievi sopra al ruscello, la rabbia e la paura che sovrasta i protagonisti, e a percepire con tensione e ansia che qualcosa di terribile romperà la nostra apparente tranquillità. Effettivamente quando si leggono i libri di Shyrley Jackson non lo si è mai. Comunque la tensione ci viene stemperata da pennellate di ironia, che si intreccia a una quotidianità complicata che fa emergere attraverso i ricordi, rinchiusi a fatica nell’inconscio, fantasmi che hanno sembianze umane.
A tenerci incollati alle storie di questa autrice non sono solo l’evolversi dei fatti e ritrovare noi stessi in alcuni tratti psicologici dei personaggi, ma è anche (e soprattutto) una trasportazione attraverso i cinque sensi. I dettagli sensoriali sono talmente vividi che dipingono l’immagine dettagliatamente, dando informazioni reali e concrete senza influenzarci. L’intento della scrittrice è quello di suscitare nel lettore le sue stesse impressioni, e di evocare sensazione e sentimenti.
“Quando si avvicinavano i bambini mi irrigidisco dal terrore. Avevo paura che mi toccassero e le madri mi piombassero addosso come uno stormo di falchi: era quella l’immagine che avevo sempre in mente, un nugolo di uccelli che mi attaccava, lacerandomi le carni con artigli affilati come rasoi.”
Buona Lettura 📚